di Francesca Coleti (*) e Massimo Angrisano (**) – (da Il Manifesto dell’11/a/2017)
Per la prima volta dopo molti anni, nel 2016 il saldo migratorio in Campania e in molte regioni del mezzogiorno è risultato negativo. In poche parole, la bilancia tra il numero di immigrati che hanno stabilito residenza nella nostra regione e quello dei giovani che invece sono partiti per cercare lavoro all’estero, pende dalla parte di questi ultimi.
La nuova emigrazione del mezzogiorno è tre volte superiore ai dati Istat e supera il numero degli immigrati e profughi: costatazione fin troppo facile per la Filef (la Federazione italiana lavoratori emigrati e famiglie) che invita a contare non le cancellazioni di residenza di chi è partito già da anni, ma l’iscrizione ai registi di ricerca lavoro nei paesi meta dei giovani meridionali – Germania e Gran Bretagna prima di tutti – dove le cifre superano di tre/quattro volte quelle contabilizzate dall’Aire, l’anagrafe italiana dei residenti all’estero.
Al primo gennaio 2015 la provenienza dello stock di emigrazione vede la Campania, con 463.239 unità, seconda solo alla regione Sicilia (713.483) e seguita immediatamante dopo da Calabria e Puglia. In termini percentuali sulla popolazione, invece, sono Molise e Basilicata (26 e 21%) a raggiungere il record delle fughe, mentre il tasso di immigrati presenti oscilla in tutto il meridione tra il 3 e poco più del 4 per cento, mostrando quanto sia inadeguato l’apporto di nuove risorse umane provenienti dal sud del mondo a compensare lo spopolamento.
Una fotografia impietosa, questa, che sembra restare nascosta dietro le immagini degli sbarchi dei profughi, utilizzati come capro espiatorio del Pil che non cresce, degli ospedali senza letti e del lavoro che nessuno ruba più. Ma evidentemente è un quadro troppo scomodo da raccontare.
Lo Svimez, nel rapporto 2016 sull’economia nel mezzogiorno, pur registrando un minimo incremento di investimenti e consumi, chiarisce come i primi, connessi sostanzialmente all’agricoltura, si spiegano grazie alla flessione del periodo precedente ed alla positiva congiuntura climatica, mentre i secondi mostrano la persistente stagnazione della spesa per beni essenziali come quelli alimentari ed un forte divario, rispetto al resto del Paese, relativo agli acquisti per servizi culturali e salute. Insomma, il quadro di un sud dove la crisi continua a imperversare, dove il rischio povertà è tre volte quello in cui incorre un cittadino del nord, dove una persona su 10 è in condizioni di povertà assoluta (6% al nord) e la risposta dello stato sull’infrastrutturazione primaria per lo sviluppo ed i servizi sostanzialmente è inesistente.
Più welfare, più consumi che non possono che crescere in quei settori, labour intensive (servizi, cultura, turismo, socialità), dove la tecnologia e l’innovazione hanno direzionato bisogni e aspettative di qualità del benessere. Inutile andare a cercare occupazione lì dove la modernizzazione dei processi produttivi ha ridotto l’apporto di lavoro oltre che devastare l’ambiente e generare bisogni indotti. Il consumo per il consumo, non convince più nessuno. E le famiglie quindi non comprano.
Ma welfare, socialità, cultura e ambiente sono ancora considerati investimenti “frivoli”, roba da romantici, senza capire che è il tempo liberato e di qualità, oggi, il bene dal prezzo più alto. Ed è proprio la consapevolezza, sempre più diffusa ed evidente che le condizioni e le aspettative di benessere non trovano spazio sufficienti nella visione (se ce ne fosse una) della politica per il futuro del meridione, che fa scattare la molla dell’emigrazione.
Nel rapporto 2016 della Fondazione Migrantes sugli Italiani nel Mondo, si delineano le caratteristiche di questa nuova emigrazione, giovane e acculturata. Alle basi della partenza, oltre al contesto lavorativo vero e proprio, c’è “il desiderio di progredire professionalmente” “conoscere, scoprire, sperimentarsi senza negare il difficile contesto nazionale, ma per costruire un percorso”.
Che evidentemente non può essere realizzato in patria. La connessione studio-formazione-lavoro che esperienze come Erasmus portano poi a far scegliere altri paesi per scommettere sul proprio futuro, non è replicabile in Italia e in Campania, dove strumenti come la sbandierata Garanzia Giovani hanno sostituito lavoro precario e poco qualificato negli enti locali e nella pubblica amministrazione, dimostrandosi un bluff.
Sono giovani i nuovi emigrati, “pendolari a lungo raggio”, precari nella loro stessa esperienza di migrazione, che non hanno bisogno di cancellare la propria residenza, ma circolano nell’Europa di Shengen e portano intelligenza e vitalità lì dove trovano un ambiente che valorizza le loro capacità. Non chiamateli bamboccioni.
Se i nostri nonni che cercavano fortuna nelle Americhe o nel nord Europa avevano il pensiero fisso di tornare un giorno a casa, i ragazzi che già da qualche anno lasciano l’Italia per lavorare in un altro paese nemmeno si iscrivono all’anagrafe degli italiani all’estero. Perdono così ogni rapporto civico con la propria terra, a cominciare dal diritto di voto, e non sembrano farsene un cruccio. C’è voluto un referendum cotituzionale per accorgersi che la questione non è da poco: viaggi ministeriali di propaganda, lettere del presidente del consiglio a casa di cisacuno. Ma è questo il livello di consapevolezza sul fenomeno raggiunto dalla politica?
Questi “giovani fastidiosi” sembrano preoccupare piuttosto perchè non figliano, seguono stili di vita scorretti stigmatizzati in campagne ministeriali per la fertilità. Ancora non si vede come invertire la rotta di questo paese proprio scommettendo sulle sue energire più vivaci.
Restare per resistere, resistere per costruire. E’ possibile? Costruire condizioni minime di mobilità sociale, lavoro, benessere in cui poter immaginare il proprio futuro è una prospettiva concreta solo se si comincia a pensare al plurale. Colmare gli squilibri, ridurre le disuguaglianze, combattere le povertà, anche attraverso il rilancio di una diversa idea di stato sociale che garantisca gli effettivi diritti di cittadinanza.
Vanno cambiate le priorità, investendo su una fertilizzazione del territorio che valorizzi quei settori della formazione, del benessere e della qualità della vita che al Sud sono carenti o inesistenti. Vanno svecchiati i tradizionali carrozzoni della vecchia impresa. Investire nei bacini culturali locali e sulla filiera con le produzioni creative, nei distretti ambientali, le energie rinnovabili, i servizi di cura, recuperando spazi urbani inutilizzati, sostenendo la concessione del credito, puntando sulle formazioni solidali come il terzo settore, premiando la creazione di lavoro pari. Le organizziazioni del terzo settore possono effettivamente offrire una prospettiva di sviluppo diversa, che realizzi possibilità di lavoro e benessere perchè basate su principi di economia democratica e senza profitto.
Bisogna puntare sulla formazione di distretti e partneriati di produzione e servizi dove il Pubblico recuperi un ruolo vero di impulso e regia territoriale. Reti di comunità, anche scommettendo sull’accoglienza, come insegna l’esperienza di Riace, rimodernando in chiave ambientale l’abitare con servizi comuni di housing che abbattano i costi e rendano accessibile il diritto alla casa; promuovendo nuovi modelli di mutualità territoriale, che mettano in rete pubblico, privato e terzo settore con servizi per la mobilità sostenibile nelle grandi città e piccoli centri, la cura delle persone non autosufficienti, la fruizione culturale, la socialità, il coworking.
Puntare sulla formazione dei giovani e la valorizzazione delle loro competenze. Italiani e immigrati, i “millennials” hanno competenze trasversali importanti, dalle capacità linguistiche a quelle multimediali, necessarie oggi anche per rivedere in chiave moderna mestieri della tradizione e sprovincializzare le specializzazioni del territorio: cuochi, operatori turistici, artigiani della manifattura..sprecare intelligenze ed energie giovani solo perchè straniere è un danno incommensurabile. Eppure anche a sinistra spuntano coloro che, dimendicando quello che per generazioni di italiani “gastarbeiter” in Germania ha rappresentato la scuola differenziale, oggi ripropongono l’accoglienza in caserme, immaginando percorsi professionalizzanti calibrati per un capitale umano inferiore, per un mercato del lavoro a bassa qualificazione.
Per fare tutto questo, bisogna andare oltre la dimensione individuale, quella che ispira ogni avventura migratoria, e scommettere su un progetto collettivo per l’intero mezzogiorno. Il territorio non è della storia, ma di chi lo abita. Non può essere mai uguale a se stesso. Nessuno si salva da solo.
*) – Francesca Coleti, presidente Arci Campania
**) – Massimo Angrisano, presidente Filef Campania